Le Idi di Marzo e il Cesaricidio

Con il termine cesaricidio si  indica l’assassinio di Gaio Giulio Cesare, avvenuto a largo Argentina a Roma, il 15 marzo del 44 a.C. data tristemente nota denominata le Idi di marzo, a opera di un gruppo di circa una ventina di senatori i quali si consideravano custodi e difensori della tradizione e dell’ordinamento repubblicani e che, per loro cultura e formazione, erano contrari a ogni forma di potere personale.

Temendo che Cesare volesse diventare Re di Roma  circa 60 o 80 senatori si organizzarono in una congiura, guidata da «Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto» al fine di uccidere il dittatore.

Tra i congiurati vi erano i sostenitori di Cesare che furono spinti a compiere questo assassinio  per rancore, invidia e delusioni per mancati riconoscimenti e compensi.

Mentre le 23 coltellate lo colpivano, una per ogni congiurato, il suo corpo era coperto solo con la tunica, come ultimo gesto di orgoglio. Cesare riconobbe tra i suoi assassini, un suo amico,  Marco Giunio Bruto al quale rivolse la sua ultima parola : “Tu quoque, Brute, fili mi!” –  Lo scrittore latino Svetonio (70-126) riferisce che morendo Cesare disse in greco “Kai su teknòn” (“Anche tu figlio”), perché quella era la lingua dell’élite romana. Ma questa versione dei fatti è messa in dubbio dallo stesso Svetonio, secondo il quale Cesare, in quel fatidico giorno delle idi di marzo del 44 a. C., emise solo un gemito e non disse alcuna parola.

Ormai esanime  crollò proprio sotto una statua di Pompeo, suo acerrimo nemico.

Il cesaricidio è inteso nel senso prevalente di eliminazione fisica di chi si ritenga possa pregiudicare la libertà per fini di potere personale, ha assunto nel tempo il significato ideologico di estremo tentativo di difendere i valori delle libertà civili  o, al contrario, quello di conservare ad ogni costo i valori della tradizione messi in pericolo da un potere giudicato come dispotico.

Così Svetonio descrive poi l’assassinio di Cesare

« Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.

Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.

I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido . »